Probabilmente ti sarà capitato, almeno una volta, di scrivere in modo errato una parola di uso quotidiano senza nemmeno accorgertene. In Italia, la frequenza di certi errori ortografici è sorprendentemente alta: capita spesso che la naturale pronuncia o l’abitudine portino allo sbaglio sistematico di termini che, invece, hanno una forma ben precisa, stabilita dalla grammatica italiana. Tra questi, spicca la locuzione avverbiale che usi per esprimere il concetto di “separatamente” o “in disparte”: la variante erronea immancabilmente scritta da tanti è “apparte”, mentre la grafia corretta è “a parte”.
Perché tanti scrivono “apparte”? Origini di un errore comune
Nell’italiano standard, molte espressioni derivano da un’unione di preposizione e nome, senza fusioni grafiche che le trasformino in una parola sola. L’errore di scrivere “apparte” nasce innanzitutto dalla pronuncia, accentuata soprattutto in alcune regioni, dove il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico fa sì che la “p” sembri rafforzarsi dopo la “a”. Si tratta però solo di una consuetudine orale che non trova conferma nella scrittura corretta. Dal punto di vista grammaticale, “a parte” è la combinazione della preposizione “a” e del sostantivo “parte”: nessun univerbamento è mai stato ammesso dalle regole dell’italiano corrente.
Simili confusioni si verificano anche per altre espressioni composte, come avviene ad esempio con “a fianco”, spesso erroneamente trasformato in “affianco”, oppure con “in mezzo” talvolta scritto come “inmezzo”. Sono errori che derivano sempre dall’influenza della forma parlata, ma che vanno evitati per rispettare la correttezza ortografica.
La regola grammaticale e i fenomeni simili
Se analizzata da vicino, la locuzione “a parte” rappresenta uno dei tanti casi in cui la lingua italiana ha scelto di mantenere distinte le singole componenti della frase. Nel confronto con altre espressioni, esistono invece casi opposti, dove la fusione grafica è corretta e obbligatoria. Ad esempio:
- “tuttora” e “finora”: devono essere sempre scritte come parole unite, mai separatamente con apostrofo come “tutt’ora” o “fin’ora”.
- “dopotutto”: viene scritto senza separazione né apostrofo, a differenza di “dopo tutto” che può essere usato solo in contesti diversi, con altri significati.
Invece, c’è una lunga lista di espressioni che devono rimanere separate, anche se la pronuncia induce spesso in errore. È il caso, oltre che di “a parte”, di frasi come “qualcun altro”, che non vuole l’apostrofo, perché si tratta di troncamento e non di elisione.
Per chiarire meglio, ecco una breve lista di esempi frequenti tratti dalle regole lessicali della lingua italiana:
- a parte (mai “apparte”)
- di fronte (non “difronte”, se non come forma arcaica o rara)
- qualcun altro (senza apostrofo, non “qualcun’altro”)
- caso mai (la forma unita “casomai” è considerata meno comune o informale)
- mano d’opera (preferibile “manodopera” nell’uso corrente, ma ben distinto da “mano d’opera” nel significato originario)
La lingua parlata influenza la scrittura?
Un fenomeno centrale nella diffusione di certi errori sta nella diversa diffusione regionale della pronuncia. Così come per “a parte”, l’italiano parlato nei vari territori può portare a raddoppiare alcune consonanti, a elidere vocali, o a modificare la grafia per adattarla al ritmo della conversazione quotidiana.
Il raddoppiamento fonosintattico, tipico soprattutto del Centro e Sud Italia, trova riscontro anche in altre locuzioni: il suono prodotto da “a parte”, infatti, nella normale parlata, si avvicina sensibilmente a “apparte”, inducendo molti a scrivere la parola come la pronunciamo. Tuttavia, la norma grammaticale codificata dagli studi linguistici (come quelli dell’Accademia della Crusca) e delle principali opere di riferimento, come il Vocabolario della lingua italiana, richiede il rispetto della distinzione grafica tra preposizione e nome.
Allo stesso modo, l’influenza regionale può portare a errori anche in parole come “difronte” (che invece va scritto “di fronte”), “dappertutto” (corretto come parola unica), o nelle scelte tra forme unite e separate, che spesso creano confusione anche tra i parlanti più attenti.
La scrittura corretta e le sue implicazioni nell’italiano contemporaneo
Nel mondo digitale odierno, in cui la rapidità prevale spesso sulla precisione, diventa sempre più comune imbattersi in errori ortografici di ogni genere. Tuttavia, la forma corretta assume una particolare importanza sia nella comunicazione formale sia in quella informale: l’ortografia, infatti, è spesso interpretata come riflesso di attenzione, cultura e rispetto per l’interlocutore.
Le regole dell’italiano sono frutto di secoli di evoluzione, eppure alcune sono ancora oggi sottovalutate. Scrivere “apparte” invece di “a parte” è uno scivolone che può compromettere la chiarezza e la credibilità di un testo. In particolare, nel lavoro, nella scuola, sui social e in ogni luogo dove le parole costruiscono la nostra immagine, mostrarsi precisi nella scrittura rappresenta una forma di cura per i dettagli.
Esistono altri casi simili che possono generare confusione:
- Ad esempio, la differenza tra “ci hai” e forme contratte come “c’hai” o “ciai”: soltanto la prima è grammaticalmente corretta, mentre le altre sono considerabili come colloquialismi o scorrettezze ortografiche.
- Molti dubbi sorgono anche con locuzioni come “daltronde” (preferibile “d’altronde”) o “pocanzi” (meno comune rispetto a “poco anzi”), come riportato dai principali vocabolari italiani.
Correggere questi errori passa prima di tutto dalla consapevolezza: sono le fonti autorevoli (dizionari, grammatiche, consigli dell’Accademia della Crusca) che fissano le regole, mentre l’uso popolare, talvolta, può ingannare anche i più esperti.
In conclusione, un semplice spazio tra “a” e “parte” può fare la differenza tra una scrittura corretta e un errore che, pur essendo molto comune, rischia di perpetuare una cattiva abitudine. Essere consapevoli della forma giusta è il primo passo per comunicare con precisione e autorevolezza, sia su carta che sullo schermo.